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Rapporto Oxfam sui respingimenti al confine greco

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Cresciuto esponenzialmente dal 2017 il numero di migranti respinti. La drammatica testimonianza di K., rifugiata politica arrestata e poi rispedita in Turchia su una barca insieme ad altre 150 persone. Restano gravissime le condizioni in cui sono costretti a sopravvivere gli oltre 9.300 migranti intrappolati nelle isole greche

In quattro anni sono passati da centinaia a migliaia i casi dei respingimenti illegali al confine greco. Chi decide di parlare viene criminalizzato. A denunciare questo stato di fatto è l’ultimo rapporto da Lesbo pubblicato (il testo rapporto in inglese ) da Oxfam e Greek Council for Refugees (GCR) alla vigilia della Giornata Mondiale del Rifugiato, che fotografa attraverso testimonianze dirette quanto la pratica del respingimento illegale sia comune e diffusa.

La situazione dei migranti intrappolati a Lesbo (oltre 6.300), soprattutto nel campo di Mavrouni ribattezzato Moria 2.0restano disperate: migliaia di minori non vanno a scuola, spesso arrivano da soli e in molti casi vengono trattati come adulti perché passano mesi prima che venga accertata la loro età; oltre 5.500 persone a Moria 2.0 devono fare i conti con la crescita dei contagi da Covid19 che si sono moltiplicati nel mese di maggio, in assenza di assistenza sanitaria e servizi igienici.
«Chi non viene respinto si ritrova a vivere in condizioni disumane, soprattutto donne e bambini», dice Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia«Più della metà dei migranti che si trovavano a Lesbo a inizio giugno erano donne (il 22%) e minori (il 32%), il che significa oltre 1.800 bambini e ragazzi, che per i 2/3 hanno meno di 12 anni e nel 7% dei casi sono arrivati in Grecia da soli».

La storia di K.

«Sono scappata dal mio Paese per non finire in carcere dopo una condanna ingiusta. Ci avrei passato la mia giovinezza tra maltrattamenti e torture» racconta K., una giovane rifugiata politica, fuggita dal suo paese per evitare persecuzioni e torture.
Dopo essere stata arrestata dalle forze dell’ordine in Grecia – nonostante avesse presentato richiesta di asilo – Kè stata trattenuta per quasi un giorno insieme ad altre persone in un vecchio edificio, al freddo senza né acqua né cibo. «Ho capito che ci avrebbero rispedito indietro. Lo fanno sistematicamente, è una prassi consolidata». La storia si conclude infatti con un respingimento: messa su una barca dalle autorità greche, insieme ad altre 150 persone provenienti da Siria e Afghanistan con la sola prospettiva di finire in mano turca o morire.

«Le leggi internazionali, europee e greche stabiliscono il diritto alla richiesta di asilo e impediscono respingimenti senza un esame del caso personale», continua Pezzati.«Siamo di fronte ad una palese e sistematica violazione delle normative e soprattutto dei diritti fondamentali delle persone che raggiungono l’Europa, in cerca di salvezza».

La testimonianza di K. dimostra uno schema che si ripete in decine di casi, confermato anche dall’Obudsman (difensore civico nazionale), secondo cui «ripetuti e costanti respingimenti si registrano sia sulla terraferma a Evros, sia sulle isole dell’Egeo».

Sui respingimenti non si aprono indagini, nemmeno sui casi più eclatanti, quelli in cui i migranti riescono a presentare alle autorità greche la richiesta di asilo e vengono comunque respinte verso la Turchia, senza che sia presa in esame. Il tutto pur trovandosi di fronte a persone che fuggono da Paesi dove conflitti e persecuzioni sono all’ordine del giorno: a inizio giugno la stragrande maggioranza dei migranti intrappolati nel campo di Moria 2.0 proveniva dall’Afghanistan (il 65%), dalla Repubblica Democratica del Congo (l’11%), dalla Somalia (l’8%), dalla Siria (l’8%) e dall’Iran.

Oxfam si appella all’Unione europea e alla Grecia «Incurante delle pressioni e richieste che si moltiplicano a livello nazionale e internazionale, la Grecia continua a respingere i richiedenti asilo o ad accoglierli in condizioni disumane, mentre l’Ue sta a guardare», continua Pezzati. «L’Ue deve invece assicurare che tutti i suoi membri abbiano al loro interno organismi e procedure per indagare sui casi di respingimento illegale, in modo indipendente e con pieno mandato per esaminare le prove.Sapevamo già di questa vergognosa pratica illegale, ma è giunto il momento di chiedere l’istituzione di un’autorità investigativa indipendente, capace di monitorare e intervenire su quanto accade».

Fonte: http://www.vita.it/it/article/2021/06/18/rapporto-oxfam-sui-respingimenti-al-confine-greco/159729/


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Dopo tre anni di procedimento, la Corte Federale la riconosce come vittima di violenza domestica

Tipo: Caso individuale

Parole chiave: violenza domestica

Scaricare  Caso 355_Amina

Amina* ha ottenuto un permesso di soggiorno per matrimonio. Ha lasciato la casa coniugale a causa della violenza del marito ed è stata minacciata di deportazione dal SEM e dal TAF. Dopo tre anni di procedimenti, la Corte Federale ha finalmente riconosciuto la sua condizione di vittima di violenza domestica e ha deciso che il suo permesso di soggiorno doveva essere rinnovato.

Persona interessata: Amina* (non è il suo vero nome), nata nel 1964

Origine: Algeria

Stato: permesso B per matrimonio -> rinnovo accettato

Riassunto del caso

Dopo il suo matrimonio con Khaled*, che ha un permesso di soggiorno in Svizzera, Amina*, cittadina algerina, ha ottenuto un permesso di soggiorno attraverso il ricongiungimento familiare e si è stabilita a Losanna con suo marito. Due mesi dopo, ha lasciato la casa coniugale, in seguito a una discussione durante la quale il marito l’aveva gravemente maltrattata. Un rapporto medico è stato redatto il giorno dopo dall’Unità di Medicina della Violenza del CHUV e il marito è stato condannato – nove mesi dopo – ad una multa di 60 giorni per lesioni corporali qualificate.

Secondo la legge, il permesso di soggiorno di un coniuge entrato in Svizzera attraverso il ricongiungimento familiare non è prorogato se la coppia vive insieme da meno di tre anni, tranne in caso di gravi motivi personali (art. 50 al. 1 lett. b), in particolare quando un coniuge è vittima di violenza coniugale o quando la reintegrazione sociale nel Paese d’origine sembra essere seriamente compromessa (art. 50 al. 2 LEI).

Nel caso di Amina*, diversi documenti attestano la violenza domestica che ha subito. Nell’ambito del suo diritto ad essere ascoltata dal SEM, ha spiegato dettagliatamente le violenze psicologiche e le minacce quotidiane del marito, il controllo estremo che lui ha esercitato su di lei, così come i continui insulti, la coercizione sessuale e la violenza fisica.

Nonostante queste considerazioni, la SEM ha rifiutato di rinnovare il permesso di soggiorno di Amina* e ha ordinato il suo allontanamento dalla Svizzera. Un ricorso è stato presentato al TAF, che ha approvato la decisione del SEM. Queste due autorità giudicano insufficiente l’intensità della violenza fisica e psicologica.

In appello, la Corte federale ribalta la decisione del Tribunale amministrativo federale e approva la proroga del permesso di soggiorno di Amina*. Secondo la Corte, la violenza che l’ha portata a lasciare il domicilio coniugale e il marito ha raggiunto il grado di gravità e intensità richiesto dalla giurisprudenza per l’applicazione dell’art. 50 cpv. 1 lett. b e cpv. 2 LEI.

Domande sollevate

Le esigenze troppo elevate della SEM e del TAF in materia di prova dell’intensità della violenza subita non permettono di raggiungere l’obiettivo iniziale di protezione delle vittime di violenza domestica ai sensi dell’art. 50 cpv. 1 lett. b e cpv. 2 LEI (vedi il rapporto dell’ODAE su questo tema). Come mai una condanna penale per lesioni corporali qualificate contro il marito di Amina* per violenza domestica commessa due mesi dopo l’inizio della loro vita insieme non è accettata dalla SEM e dal TAF come prova di una violenza di una “certa intensità” nel senso della giurisprudenza (in particolare ATF 136 II 1 (2C_460/2009) del 4 novembre 2009)?

Come mai i vari mezzi di prova forniti da Amina* non sono stati sufficienti per far ammettere rapidamente che la violenza domestica di cui era vittima era di “una certa intensità” e che ha dovuto aspettare tre lunghi anni nell’incertezza se sarebbe stata finalmente deportata o no?

Cronologia

2014: matrimonio in Algeria di Amina* e Khaled*.

2015: permesso di soggiorno concesso ad Amina* per il ricongiungimento familiare (settembre); separazione della coppia (novembre)

2016: condanna di Khaled* per lesioni corporali qualificate commesse su Amina* (agosto)

2017: proroga del permesso di soggiorno di Amina* da parte dello SPOP (maggio); rifiuto della SEM di approvare la proroga del permesso di soggiorno e decisione di rimandarla in Algeria (maggio); ricorso al TAF (agosto)

2019: rifiuto del ricorso da parte del TAF (luglio); ricorso al TF (agosto)

2020: approvazione della proroga del permesso di soggiorno di Amina* da parte del Tribunale federale (gennaio)

Descrizione del caso

In seguito al suo matrimonio con Khaled*, che ha un permesso di soggiorno in Svizzera, Amina*, cittadina algerina, ha ottenuto un permesso di soggiorno attraverso il ricongiungimento familiare e si è trasferita a Losanna l’11 settembre 2015 con suo marito. Due mesi dopo, ha lasciato la casa coniugale a causa della violenza inflitta dal marito. Secondo un rapporto medico redatto nel novembre 2015 dall’unità di medicina della violenza del CHUV, durante una discussione, Amina* è stata gettata a terra e schiaffeggiata dal marito, che l’ha poi afferrata per i capelli. Questi atti hanno causato varie abrasioni e gonfiori. Nove mesi dopo, Khaled* sarà condannato a una pena pecuniaria di 60 giorni di multa per lesioni corporali qualificate commesse contro sua moglie.

Secondo la legge, una famiglia è sciolta quando i coniugi non vivono più sotto lo stesso tetto. Se l’unione coniugale dura da meno di tre anni, il permesso di soggiorno del coniuge ottenuto tramite il ricongiungimento familiare non è prorogato, salvo in caso di importanti motivi personali (art. 50, cpv. 1, lett. b). Questi importanti motivi personali sono dati in particolare quando un coniuge è vittima di violenza coniugale o quando il reinserimento sociale nel paese d’origine appare seriamente compromesso (art. 50 al. 2 LEI). La vittima deve provare che la violenza domestica è probabile per mezzo di vari rapporti, perizie o testimonianze credibili (DTF 138 II 229, par. 3.2.3). Secondo la giurisprudenza, l’abuso coniugale deve essere di “una certa intensità” (ATF 136 II 1, par. 5.3).

Nel caso di Amina*, diverse istituzioni specializzate attestano la violenza coniugale di cui è stata vittima (in particolare il centro LAVI e il centro Malley-Prairie). Il follow-up psicologico è stabilito con un terapeuta che nota che Amina* soffre di “angoscia e un significativo disturbo emotivo” (certificato del 28 gennaio 2016). Nella sua lettera indirizzata alla SEM nell’ambito del suo diritto ad essere ascoltata, Amina* testimonia per iscritto le violenze psicologiche e le minacce subite quotidianamente, l’estremo controllo esercitato dal marito su di lei, i continui insulti, la coercizione sessuale e infine le gravi violenze fisiche subite durante la lite del novembre 2015. Spiega anche che è sotto pressione da parte della sua famiglia che la incolpa della separazione. I suoi fratelli hanno chiarito che non avrebbero accettato il suo ritorno a casa come donna separata o divorziata.

Nonostante queste considerazioni, nel luglio 2017 la SEM ha deciso di rifiutare l’approvazione del rinnovo del permesso di soggiorno di Amina* e ha pronunciato il suo allontanamento dalla Svizzera. Un ricorso è stato presentato al Tribunale amministrativo federale (TAF), che ha approvato la decisione del SEM. Questi due organi ritengono che l’intensità delle costrizioni fisiche e psicologiche esercitate da Khaled* su Amina* durante il periodo della loro vita insieme non è sufficiente, ai sensi della giurisprudenza, a giustificare un caso di rigore sulla base dell’articolo 50, paragrafo 1, lettera b, e paragrafo 2, LEI. Secondo il TAF, l’ordinanza penale dell’agosto 2016 si riferisce a un evento unico e gli atti di violenza subiti non hanno richiesto cure mediche. Per il TAF, ciò costituisce un’indicazione che questi atti non avevano il grado di intensità richiesto (sentenza TAF, paragrafo 5.6). Il TAF nega le difficoltà di reintegrazione che Amina * rischia di affrontare in caso di ritorno in Algeria e ritiene che lei “potrà di nuovo contare sul sostegno emotivo e materiale della sua famiglia”.

Su ricorso, la Corte federale ha annullato la decisione del Tribunale amministrativo federale e ha approvato la proroga del permesso di soggiorno di Amina*. Secondo la Corte, le gravi violenze subite durante la lite del novembre 2015, che l’hanno portata a lasciare la casa coniugale e quindi il marito, hanno raggiunto il grado di gravità e intensità richiesto dalla giurisprudenza per l’applicazione dell’art. 50 cpv. 1 let. b e cpv. 2 LEI. Anche se breve, l’esistenza della comunità coniugale tra i coniugi era reale, “tanto reale, del resto, quanto le violenze – inammissibili, qualunque sia il contesto in cui sono avvenute – cui il marito ha sottoposto la ricorrente, e non le si può rimproverare di aver preso immediatamente le distanze dal suo aggressore” (sentenza della Corte federale, par. 4.5).

Fonti:

Originale: https://odae-romand.ch/fiche/apres-trois-ans-de-procedure-le-tribunal-federal-la-reconnait-comme-victime-de-violences-conjugales/

Decisione della SEM, sentenza della FAT F-4470/2017 del 12 luglio 2019

Sentenza del TF 2C_693/2019 del 21 gennaio 2020

 Lettere di rivendicazione del diritto al contraddittorio

 Ricorso alla FAT e Ricorso al TF


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Asilo: revoca dell’ammissione provvisoria

In una sentenza di principio1, il Tribunale amministrativo federale stabilisce che in caso di revoca dell’ammissione provvisoria la Segreteria di Stato della migrazione deve sempre applicare il principio di proporzionalità. Constata inoltre che nel corso degli anni l’ammissione provvisoria ha subito considerevoli adeguamenti legislativi intesi a migliorare lo statuto delle persone ammesse a questo titolo.

La Segreteria di Stato della migrazione (SEM) verifica periodicamente se le condizioni per l’ammissione provvisoria sono ancora soddisfatte; se questi presupposti non sono più adempiuti, revoca l’ammissione provvisoria e ordina l’esecuzione dell’allontanamento. Per costante giurisprudenza, l’ammissione provvisoria può essere revocata, in linea di massima, soltanto se l’esecuzione dell’allontanamento è lecita, se il cittadino straniero interessato ha la possibilità di trasferirsi in uno Stato terzo o di rientrare nel suo Paese d’origine o nell’ultimo Paese di residenza e se l’allontanamento è ragionevolmente esigibile. Tocca dunque all’autorità competente verificare che queste tre condizioni siano cumulativamente adempiute. Dopo aver esaminato il sussistere di queste condizioni, la SEM deve ancora soppesare gli interessi privati e pubblici in presenza.

Costante evoluzione
Nella sua sentenza di principio, il Tribunale amministrativo federale (TAF) ripercorre l’evoluzione dell’istituto dell’ammissione provvisoria, la quale conferisce viepiù prerogative e sottolinea che l’esame al quale la SEM deve procedere in caso di revoca di tale statuto differisce da quello da effettuarsi al momento della concessione. Difatti, la perdita del beneficio dell’ammissione provvisoria, che dal punto di vista del diritto di soggiorno può aver costituito la base per la pianificazione del proprio futuro, può comportare cambiamenti incisivi nella situazione di persone che soggiornano legalmente da molti anni. Su questi presupposti, il Tribunale ha sancito che il principio di proporzionalità, già applicabile in materia di revoca dei permessi di soggiorno, deve essere considerato anche nelle procedure di revoca dell’ammissione provvisoria ai sensi dell’articolo 84 capoverso 2 della legge federale sugli stranieri e la loro integrazione (LStrI).

Applicazione del principio di proporzionalità nella fattispecie
Nella fattispecie, dopo aver soppesato i sussistenti interessi, il Tribunale ha ritenuto che l’ammissione provvisoria non deve essere revocata, considerati in particolare l’età dell’interessato, la durata del suo soggiorno nel nostro Paese, il suo livello di integrazione e il fatto che è incensurato e non è oggetto di procedure esecutive né di atti di carenza di beni.

Questa sentenza è definitiva e pertanto non può essere impugnata dinanzi al Tribunale federale.

Fonte: https://www.bvger.ch/bvger/it/home/media/medienmitteilungen-2020/asylurteilzuraufhebungdervorlaufigenaufnahme.html


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Naturalizzazione negata

Nel 2018, la Segreteria di Stato della migrazione ha rifiutato la naturalizzazione ordinaria al figlio di un ex ministro del Kazakistan. Il Tribunale amministrativo federale conferma la decisione negativa a causa dei procedimenti giudiziari ancora in corso nei suoi confronti.

Ilyas Khrapunov risiede in Svizzera dal 1998. Il padre è stato sindaco della città di Almaty e ha ricoperto diversi ruoli ministeriali in Kazakistan, il suocero è un noto oppositore del regime kazako. Il regime di Astana gli rimprovera di aver aiutato i suoi genitori a riciclare svariati milioni di franchi svizzeri sottratti illecitamente durante i mandati politici del padre. La Segreteria di Stato della Migrazione (SEM) aveva dapprima sospeso la domanda di naturalizzazione presentata da Khrapunov nel 2006, per poi respingerla nel 2018. La SEM ha ritenuto che il richiedente non rispettasse l’ordinamento giuridico svizzero, e che la concessione dell’autorizzazione di naturalizzazione avrebbe potuto compromettere le relazioni bilaterali tra la Svizzera e il Kazakistan. L’interessato ha impugnato questa decisione dinanzi al Tribunale amministrativo federale (TAF).

Procedimenti giudiziari in corso
Una delle condizioni della naturalizzazione consiste nel rispetto dell’ordinamento giuridico svizzero, nonché degli ordinamenti giuridici esteri in caso di reati punibili anche in Svizzera. Di conseguenza, se un richiedente è oggetto di procedimenti giudiziari pendenti in Svizzera o all’estero, e in particolare di procedimenti penali, l’autorizzazione federale alla naturalizzazione non può di principio essere accordata.

Nella fattispecie, la famiglia Khrapunov è oggetto in Svizzera di un procedimento penale per riciclaggio di denaro. Nei confronti della famiglia sono stati promossi numerosi procedimenti anche in altri Paesi, e in special modo negli Stati Uniti e in Inghilterra, volti a ottenere la restituzione di denaro sottratto illecitamente. In virtù di una sentenza pronunciata da una corte britannica, nei confronti del ricorrente è stata avviata di recente anche una procedura esecutiva. Il ricorrente contesta però l’esecutorietà di tale sentenza.

Malus politico non decisivo
Il ricorrente allega in sostanza che le autorità kazake avrebbero sporto denunce penali e avviato cause civili infondate un po’ ovunque, al solo scopo di nuocere a lui e alla sua famiglia, essendo egli stesso imparentato con persone che un tempo erano vicine al regime kazako, ma al quale si sono in seguito apertamente opposte.

Benché questo argomento non sembri di primo acchito totalmente sprovvisto di fondamento, il TAF constata che alcuni procedimenti hanno avuto un esito negativo per il ricorrente. Vi sono inoltre anche altri elementi in virtù dei quali tali procedimenti non possono essere semplicemente ignorati. Per esempio, il ricorrente ha ricevuto da sua madre un importo di svariati milioni di dollari in circostanze poco chiare. In un simile quadro, il fatto che la domanda di naturalizzazione risalga al 2006 non ha importanza. Considerati i dati figuranti sull’estratto del casellario giudiziale e le indagini in corso, la SEM disponeva di validi motivi per sospendere la procedura di naturalizzazione. Il TAF respinge pertanto il ricorso dell’interessato.

Vedi sentenza (francese): Sentenza F-4866/2018

Fonte: https://www.bvger.ch/bvger/it/home/media/medienmitteilungen-2020/einbuergerung-oligarch.html


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Procedure di asilo familiare eque

Con una sentenza di principio1 , il Tribunale amministrativo federale riconosce l’esistenza di una nuova circostanza particolare ostativa alla concessione dell’asilo familiare. Inoltre, stabilisce che il risultato dell’apprezzamento delle prove operato nel contesto di una procedura d’asilo a titolo originario già conclusa non può essere ripreso automaticamente nella procedura successiva riguardante l’asilo familiare. Il diritto di essere sentito deve essere nuovamente accordato e i risultati dell’esercizio di tale diritto devono essere apprezzati separatamente.

Una donna di origini tibetane aveva chiesto l’asilo in Svizzera nel 2015. La Segreteria di Stato della migrazione (SEM) aveva respinto la sua domanda. Sebbene la SEM avesse riconosciuto la sua appartenenza all’etnia tibetana, l’interessata non aveva comprovato di essere fuggita direttamente dalla Cina. Fondandosi in particolare su di un’analisi della provenienza svolta da un esperto esterno, la SEM era giunta alla conclusione che molto verosimilmente la richiedente era cresciuta negli ambienti della diaspora tibetana in India o nel Nepal. Di conseguenza, aveva ordinato il suo allontanamento dalla Svizzera e la sua esecuzione, salvo escludere un rinvio dell’interessata nella Repubblica popolare cinese, dati i rischi di persecuzione ai quali erano esposti i cittadini cinesi di origini tibetane in caso di rimpatrio.

Nel 2019, l’interessata ha contratto matrimonio in Svizzera con un uomo al quale era già stato accordato l’asilo in precedenza. Dopodiché, ha chiesto alla SEM di concederle l’asilo familiare, ossia di essere inclusa nello statuto di rifugiato concesso al coniuge. La SEM ha respinto la domanda, principalmente in virtù del fatto che nella procedura d’asilo originaria l’interessata aveva violato il proprio obbligo di collaborare nascondendo il suo principale luogo di socializzazione. Tale circostanza avrebbe impedito alla SEM di verificare se l’interessata avrebbe potuto stabilirsi, con il coniuge e il figlio, in uno Stato di cui forse possedeva la cittadinanza, altra circostanza che si sarebbe opposta alla concessione dell’asilo familiare.

Nuova «circostanza particolare»
Da questo caso il Tribunale amministrativo federale (TAF) trae una conclusione di principio: l’impossibilità per la SEM di verificare se il richiedente possiede un’altra cittadinanza, diversa da quella del membro della famiglia a cui è già stato riconosciuto lo statuto di rifugiato, può costituire una «circostanza particolare» che osta alla concessione dell’asilo familiare. Una tale costellazione è realizzata allorquando l’interessato commette una grave violazione del proprio obbligo di collaborare nella pertinente procedura.

Il diritto di essere sentito deve essere di nuovo concesso
Secondo il TAF, la SEM può tener conto dei fatti e mezzi di prova della procedura precedente ormai conclusa a condizione che nell’ambito della seconda procedura conceda di nuovo al richiedente la possibilità di esprimersi, ossia il diritto di essere sentito. In tale ambito la SEM deve informare anticipatamente il richiedente sulle conseguenze che una mancata collaborazione potrebbe avere sull’esito della nuova procedura. In seguito, dovrà valutare le osservazioni presentate dal richiedente nell’esercizio del diritto di essere sentito alla luce delle esigenze specifiche previste per le domande di asilo familiare.

Si tratta di un passo necessario, poiché la legge sottopone la procedura d’asilo originaria e la procedura per le domande di asilo familiare a condizioni diverse. Una dichiarazione del richiedente o il fatto quest’ultimo taccia nuovamente un elemento essenziale non ha, di principio, alcuna conseguenza sull’esecuzione della decisione di allontanamento, data l’esistenza di un potenziale diritto al rilascio di un permesso di soggiorno cantonale.

Necessità di un nuovo apprezzamento
In concreto la SEM è dunque tenuta, nell’ambito della procedura per la concessione dell’asilo familiare, a chiedere alla richiedente se intende mantenere le dichiarazioni effettuate nell’ambito della procedura d’asilo originaria, ossia se insiste nell’affermare di essere cresciuta nel Tibet e di possedere quindi unicamente la cittadinanza cinese, o se intende invece modificare le sue precedenti dichiarazioni e collaborare con la SEM affinché quest’ultima possa stabilire il suo vero luogo principale di socializzazione ed escludere che vi abbia ottenuto una nuova cittadinanza. Una volta ricevuta la risposta della richiedente nell’ambito della concessione del diritto di essere sentito, la SEM deve dunque procedere a un nuovo apprezzamento dell’insieme delle dichiarazioni e dei mezzi di prova versati agli atti, per poi in seguito, su queste basi, esaminare se l’obbligo di collaborare è stato violato anche nell’ambito della procedura tendente all’ottenimento dell’asilo familiare e valutare la gravità dell’eventuale violazione. Pertanto, il TAF annulla la decisione di rifiuto dell’asilo familiare e rinvia la causa alla SEM per complemento di istruzione e nuovo apprezzamento.

Vedi sentenza (francese): Sentenza E-1813/2019

Fonte: https://www.bvger.ch/bvger/it/home/media/medienmitteilungen-2020/faireverfahrenbetreffendfamilienasyl.html


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Il TAF bacchetta la SEM su procedura asilo accelerata

Il Tribunale amministrativo federale (TAF) bacchetta la Segreteria di Stato della migrazione (SEM). Quest’ultima ha ripetutamente violato i diritti garantiti ai richiedenti asilo nell’ambito delle procedure accelerate.

Con un sentenza di principio, il TAF ha accolto il ricorso di un richiedente la cui domanda era stata decisa con la nuova procedura celere. Introdotta nel marzo 2019 dalla revisione della legge sull’asilo, questa procedura è applicabile alle domande che possono essere decise senza ulteriori chiarimenti.

Quando la SEM respinge la domanda, il termine per il ricorso al TAF è di sette giorni, mentre è di 30 giorni per la procedura ampliata riservata ai casi complessi. Nel caso specifico, il rappresentante legale del ricorrente aveva richiamato l’attenzione della SEM sulla complessità del caso. Dopo una prima audizione, la SEM ne aveva infatti effettuate altre due della durata di sei ore ciascuna.

La decisione sull’asilo – scrive il TAF in un comunicato stampa – era arrivata soltanto dopo 89 giorni di calendario, invece dei 29 giorni previsti dal legislatore. Al rappresentante legale erano però concessi soltanto 7 giorni di tempo per fare ricorso.

Errore di triage commesso dalla SEM

Nella loro sentenza, i giudici di San Gallo ammettono che la SEM ha compiuto ampie indagini ed ha motivato compiutamente la sua decisione. Ma benché la legge preveda che nella procedura celere la durata massima di 29 giorni può essere superata di “alcuni giorni”, la SEM ha oltrepassato anche questo margine “in misura massiccia”.

Le giustificazioni addotte dalla SEM per motivare la mancata attribuzione alla procedura ampliata non hanno peraltro convinto il collegio giudicante. Già in prima istanza il rappresentante legale aveva in effetti evidenziato la complessità della procedura e l’errore di triage. In conclusione, la Corte ha annullato la decisione e ha rinviato la causa alla SEM per un nuovo giudizio in procedura ampliata. La sentenza è definitiva.

Il TAF precisa inoltre che quello trattato non è un caso speciale. In molti altri casi, la SEM avrebbe dovuto optare per una procedura estesa, garantendo un termine ordinario di ricorso di 30 giorni.

(Sentenza E-6713/2019 del 9 giugno 2020)

Fonte: https://www.swissinfo.ch/ita/il-taf-bacchetta-la-sem-su-procedura-asilo-accelerata/45848752


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Trasferimenti Dublino verso la Bulgaria: nessuna carenza sistemica, ma valutazione caso per caso

Il Tribunale amministrativo federale (TAF) ha esaminato la situazione dei richiedenti l’asilo accolti in Bulgaria nell’ambito dei trasferimenti Dublino, e stabilito che la procedura d’asilo e le condizioni di accoglienza non presentano carenze sistemiche tali da giustificare la completa sospensione dei rinvii verso questo Paese. Occorre piuttosto valutare caso per caso se è necessario o no rinunciare al trasferimento di un richiedente.

Dopo aver chiesto asilo in Bulgaria, una cittadina dello Sri Lanka è arrivata in Svizzera per presentare una nuova domanda d’asilo. Ritenendo che non vi fossero motivi contrari al suo trasferimento in Bulgaria, la Segreteria di Stato della migrazione (SEM) ha emesso una decisione di non entrata nel merito Dublino. Tale decisione è cresciuta in giudicato. Successivamente l’interessata ha presentato una domanda di riesame affermando di soffrire di un disturbo post traumatico da stress che in Bulgaria non poteva essere adeguatamente curato, di temere di non poter più beneficiare delle prestazioni ordinarie poiché la sua domanda era già stata respinta dalle autorità bulgare e di rischiare addirittura di essere incarcerata ed esposta a condizioni inumane o di essere rimpatriata in violazione del principio di non respingimento.

Adito dall’interessata con un ricorso interposto contro la reiezione della domanda di riesame decisa dalla SEM, il TAF ha esaminato approfonditamente la situazione generale dei richiedenti l’asilo in Bulgaria e la situazione individuale dell’interessata.

Nessuna carenza sistemica
Fondandosi su diversi rapporti, il TAF ha stabilito che le carenze indubbiamente preoccupanti che caratterizzano la procedura d’asilo e le condizioni di accoglienza in Bulgaria non sono tuttavia sufficientemente gravi per essere considerate carenze sistemiche giustificanti la completa sospensione dei rinvii verso tale Paese.

Situazione dei richiedenti particolarmente vulnerabili
In assenza di carenze sistemiche, il TAF ha ritenuto che una rinuncia generale al trasferimento dei richiedenti particolarmente vulnerabili verso la Bulgaria non sarebbe giustificata. Tuttavia, il trasferimento di questi richiedenti presuppone una valutazione dettagliata di ogni singolo caso, al fine di escludere che al momento del ritorno in Bulgaria un richiedente possa subire trattamenti inumani e degradanti. Tale valutazione può anche sfociare sulla richiesta di concrete e previe garanzie da parte delle autorità bulgare.

Esame del caso individuale
Nella fattispecie, la vulnerabilità particolare della ricorrente ha giustificato la rinuncia al suo trasferimento verso la Bulgaria. A questo riguardo, il TAF ha tenuto conto non solo delle fragili condizioni di salute dell’interessata, ma anche dello stadio in cui si trova la sua procedura d’asilo in Bulgaria, delle possibilità di presa in carico sanitaria e, più in generale, delle condizioni di accoglienza (o di detenzione) alle quali si troverebbe confrontata al momento del ritorno in tale Paese.

Vedi sentenza (francese): Sentenza F-7195/2018

Fonte: https://www.bvger.ch/bvger/it/home/media/medienmitteilungen-2020/dublin-ueberstellungennach_bulgarien.html


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La Svizzera ha violato la Convenzione contro la tortura in una decisione di rinvio in Eritrea

Il Centro Svizzera per la Difesa dei Diritti dei Migranti accoglie con favore la decisione del 7 dicembre 2018 del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura secondo la quale l’allontanamento di un giovane eritreo dalla Svizzera all’Eritrea viola la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti (CAT).

Il Comitato delle Nazioni Unite esige che la Svizzera indaghi nuovamente sul caso della persona interessata, tenendo conto dei rischi che correrebbe se fosse rimandato nel suo paese d’origine. Questa decisione mette in discussione alcune pratiche delle autorità competenti in materia di asilo per quanto riguarda l’accesso alla giustizia. La CAT fa anche riferimento alle numerose violazioni dei diritti umani che avvengono in Eritrea, un richiamo che mette in discussione l’attuale pratica delle autorità svizzere riguardo alle decisioni di rimpatrio in Eritrea.

Il CSDM ritiene che questa nuova giurisprudenza fornisca importanti chiarimenti sul trattamento delle domande d’asilo di cittadini eritrei in Svizzera.

Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti: https://www.fedlex.admin.ch/eli/cc/1987/1307_1307_1307/it

Fonte: https://centre-csdm.org/la-suisse-a-viole-la-convention-contre-la-torture-dans-une-decision-de-renvoi-vers-lerythree/

Comunicato stampa

Decisione del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura : M.G. c. Suisse, Communication n° 811/2017


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